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Il razzismo trova terreno fertile nelle parole prima che nelle azioni. Sono, infatti, le parole a determinare il senso di un atto compiuto, di una presa di posizione e di quelli che, pian piano, giorno dopo giorno, divengono consuetudini, credenze e, nei casi peggiori, malcostume.
Ce lo dimostra Mariangela Mianiti, in un interessante articolo pubblicato su Il Manifesto. La giornalista racconta la vicenda di un suo amico e della personalissima battaglia nel voler chiamare il marocchino, la celebre variante del caffè da bar servita con cioccolato, latte, schiuma di latte e cacao in polvere, in un modo diverso, senza richiami etnici, a sua detta, mortificanti. Ecco allora che questo simpatico figuro si presenta nelle caffetterie italiane chiedendo quando un Cavour, quando un Montecarlo, per identificare la stessa variante del caffè comunemente chiamata marocchino.
Come è facile intuire, nella maggior parte dei casi, la reazione dei banchisti è basita: cosa sarà mai un Cavour? Che cos’è un Montecarlo? E si finisce, puntualmente, dopo le arzigogolate spiegazioni del signore che si inerpica nelle più fantasiose descrizione della bevanda desiderata, nell’udire la frase di rito: “ah ma quindi è un marocchino quello che vuole?!”
Normale, logico, sano!
Come direbbero gli anziani, la malizia risiede esclusivamente nelle orecchie di chi ascolta.
Sono stati l’immoralità del linguaggio, il vizio e la corruzione dell’abitudine a far si che termini come negro assumessero, d’un tratto, un valore dispregiativo, quando, nella semplice realtà dei fatti, è una parola che identifica un colore nell’idioma spagnolo. E di esempi come questo ne è pieno il mondo, ne è pieno il vocabolario, ne è piena la cronaca.
Sarebbe assai più opportuno spostare il focus sulla condotta del singolo, singole azioni che vanno a smontare il pregiudizio anziché leggittimarlo. E se fosse un italiano a identificare una bontà come il marocchino, qualcuno avrebbe, per caso, il coraggio di sentirsi offeso?